Roberta Mor – Studio Associato RiPsi

La Psicotraumatologia moderna insiste, in modo inequivocabile, sull’importanza del corpo e delle sue sensazioni. Facendo questo, non rinnega l’importanza e l’efficacia della “terapia della parola”, ma la contestualizza e la rivede, alla luce delle recenti scoperte neuroscientifiche.
La psicoterapia “tradizionale” si è focalizzata, essenzialmente, sul costruire una narrativa che spieghi perché una persona si senta in quel modo particolare.

Raccontare la storia è importante ma, com’è noto, il racconto dell’evento non garantisce che i ricordi siano elaborati e superati: la ricerca neuroscientifica ha dimostrato l’esistenza di due forme distinte di autoconsapevolezza, quella che tiene traccia del sé nel tempo e quella che coglie il sé nel momento presente.
Il primo, che potremmo chiamare “sé autobiografico”, crea collegamenti tra le esperienze e le integra, tramite il linguaggio, in una storia coerente.
L’altro sistema, la “consapevolezza di sé momento per momento”, si basa principalmente sulle sensazioni fisiche e, se ci sentiamo sicuri di non esserne travolti, possiamo trovare le parole per comunicare anche quell’esperienza.

Questi due sistemi di conoscenza sono localizzati in diverse parti del cervello, sostanzialmente scollegate l’una dall’altra ed è per questo che, ogni tanto, possiamo osservare gesti o espressioni facciali incongrue nei nostri pazienti.
Quando si racconta un evento di vita quotidiana non si rivivono anche le sensazioni fisiche ad esso connesse ma, come più o meno tutti abbiamo sperimentato, quando il racconto tocca eventi particolarmente coinvolgenti, si ha anche la sensazione di “riviverli”.

Questo è particolarmente vero per le memorie traumatiche, che non sono riconducibili a narrazioni coerenti, ma risultano come un insieme di frammenti di sensazioni, immagini ed emozioni. Gli eventi traumatici, infatti, sono quasi impossibili da mettere in parole.

Questo, però, non significa che parlare di eventi traumatici non sia importante o significativo per la persona. Le persone sono spesso convinte che il silenzio consenta di dominare in modo efficace la paura, la vergogna e il dolore.
In realtà, il nominare, il chiamare le cose con il loro nome offre la possibilità di esercitare un diverso tipo di controllo su ciò che ci accade.
Tuttavia, nel caso di persone vittime di trauma, questo processo può essere non solo complesso, ma anche ostacolato dal funzionamento stesso del loro cervello.

Il trauma induce la sensazione di non essere più sé stessi. Come si può mettere questa sensazione in parole? Come la si può spiegare?

Se anche, durante il lavoro terapeutico, l’ascolto, l’empatia, il sostegno del terapeuta sono efficaci a creare la situazione di sicurezza che consenta, almeno in parte, di trovare le parole, avere a che fare con le memorie traumatiche in forma narrativa è solo una fase del trattamento e non lo esaurisce affatto.
Un’ulteriore trappola del linguaggio, inoltre, è l’illusione che il nostro pensiero possa essere facilmente corretto se “non ha senso”, ovvero se non è logico.
Le persone traumatizzate hanno una grande quantità di pensieri irrazionali che non possono essere confrontati: è utile dire a una donna vittima di violenza che non ha senso sentirsi colpevole per qualcosa che un altro ha fatto e che lei ha solo subito?

Questi pensieri irrazionali devono essere considerati come una sorta di flashback cognitivi: non sono discutibili più di quanto lo siano i flashback visivi, sono residui di incidenti traumatici.

Il motivo per cui le persone sono sopraffatte dal racconto delle proprie storie traumatiche dipende dal fatto che il trauma cambia il cervello e il corpo; citando Freud: “il trauma psichico, o meglio il ricordo del trauma, agisce al modo di un corpo estraneo, che deve essere considerato come un agente attualmente efficiente, anche molto tempo dopo la sua intrusione” (1892).

Lo shock traumatico impatta in modo distruttivo sulle aree più profonde e antiche del cervello. La compromissione del funzionamento di queste aree non può essere corretta dalla narrazione, dalla comprensione, dalla ragionevolezza.
Per superare il trauma, in primis, la persona deve recuperare la sensazione di essere all’interno del proprio corpo e della propria vita.

Il linguaggio è sicuramente essenziale perché il nostro senso di sé prevede il fatto di essere in grado di organizzare i ricordi in un insieme coerente; tuttavia, per poterci sentire “noi stessi” è necessario che il livello emotivo, il livello cognitivo e il livello sensoriale-corporeo lavorino in modo integrato.
Ecco allora che la Psicoterapia, e non sono la Psicotraumatologia, deve oggi ripensare sé stessa e riformulare il concetto di Trattamento: indirizzare quest’ultimo su un esclusivo livello di consapevolezza, escludendo o depotenziando gli altri non è adattivo per nessun essere umano.

All’occorrenza, l’azione del terapeuta va a lasciare sullo sfondo la narrazione, che diventa quasi un brusio, per concentrarsi sulla respirazione, sulla gestualità, sul modo di abitare il corpo. E, all’occorrenza, l’azione del terapeuta deve poter fare l’inverso, lasciando sullo sfondo respirazione, gestualità, corpo, per concentrarsi sulla narrazione.

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